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Memorandum di Budapest, la promessa che la Russia ha tradito – Stefano Magni

Il 5 dicembre 1994, veniva firmato il Memorandum di Budapest. Pochi lo ricordano, ma è l’accordo con cui l’Ucraina consegnava alla Russia tutte le sue testate nucleari, in cambio della promessa di non essere invasa.

Nel 1992 il braccio di ferro fra Mosca e Kiev iniziò subito dopo la proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina. Dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica, nacquero quattro potenze nucleari sue eredi: Russia, Bielorussia, Ucraina e Kazakistan.

L’Ucraina, in particolar modo, che era la fabbrica dei missili sovietici (prodotti nell’attuale Dnipro) era diventata la terza potenza nucleare del mondo, dopo Usa e Russia. Il 23 maggio 1992, le tre repubbliche ex sovietiche firmarono il protocollo di Lisbona del trattato Start I e si impegnarono ad aderire il prima possibile al Trattato di Non Proliferazione, di fatto rinunciando ai loro arsenali e lasciando il monopolio nucleare dell’ex Urss alla sola Russia.

La dottrina del first strike

Ma, già alla fine di maggio del 1992, lo Stato Maggiore russo fece trapelare alla stampa la bozza della prima dottrina militare post-sovietica. Dalle rivelazioni della stampa si seppe che la Russia, contrariamente all’Urss, si riservava il diritto al primo colpo nucleare, soprattutto contro i Paesi che non avrebbero aderito al Trattato di Non Proliferazione.

La difesa dei russi etnici

Il secondo punto inquietante, a maggior ragione, era il “diritto” della Russia di intervenire in difesa dei russi etnici negli Stati ex sovietici. Quasi tutte le repubbliche nate dal dissolvimento dell’Urss contenevano ampie minoranze di russi.

“Non c’è alcun precedente al mondo in cui uno Stato difende persone sulla base della loro nazionalità anche quando sono cittadini di un altro Stato – aveva protestato il primo presidente ucraino Leonid Kravchuk – Sarà l’Ucraina a difendere i russi che vivono entro i nostri confini”.

Gli aveva fatto eco l’allora presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, altro erede dell’arsenale dell’Urss: “Quando [in Russia, ndr] parlano di proteggere popoli all’estero, che non sono cittadini della Russia ma del Kazakistan, mi ricordano i tempi di Hitler, quando iniziò a proteggere i tedeschi dei Sudeti”.

L’esempio jugoslavo

Già da un anno, la Jugoslavia stava dando il cattivo esempio. Anche in quel caso, la nazione erede della ex federazione comunista e dei suoi centri di comando e controllo militare, la Serbia, stava cercando di riconquistare con la forza quel che aveva perso con i referendum, prima Slovenia e Croazia, poi, dal 1992, anche la Bosnia Erzegovina, proprio sfruttando la presenza di minoranze di serbi etnici nelle nuove nazioni.

La Russia stava già facendo lo stesso in Moldova, dove tuttora esiste una Transnistria, fedele a Mosca e riconosciuta solo dalla Russia.

L’arsenale ucraino

Il 2 luglio 1993 la Rada (parlamento) dell’Ucraina votò per costituire il proprio arsenale nucleare. La nuova repubblica, anche formalmente, trasferì le testate nucleari sovietiche alle proprie forze armate, precisamente al comando della 43ma Armata.

La Russia, in particolar modo l’esercito russo, reagì con toni molto duri. Sull’edizione di agosto della Krasnaja Zvezda, l’editorialista Ponomarev riassunse il classico punto di vista post-sovietico sulla crisi:

Certe forze all’interno degli Stati Uniti non sarebbero contrarie a veder aggravarsi il problema [di un’Ucraina dotata di armi atomiche, ndr], tendono ad esacerbarlo invece che a risolverlo così da frammentare ulteriormente gli Stati indipendenti che sono sorti sulle ceneri dell’Urss, ficcando un cuneo fra di essi, spingendoli gli uni contro gli altri. Questa strategia viene applicata prima di tutti fra i più grandi e potenti dei nuovi Stati, la Russia e l’Ucraina.

Il piano Clinton

In realtà gli Usa desideravano esattamente l’opposto. L’allora presidente Bill Clinton, insediatosi alla Casa Bianca dal gennaio di quell’anno, stava già manovrando per convincere Bielorussia, Kazakistan e soprattutto l’Ucraina a consegnare tutto il loro arsenale atomico alla Russia.

Il 3 settembre 1993, dopo aver rassicurato Kiev di garanzie internazionali sulla sua sicurezza, ottenne dal presidente Kravchuk il primo consenso informale per il trasferimento dell’arsenale sotto il controllo di Mosca.

La crisi in Russia

In realtà il piano di Clinton andò a monte, almeno la prima volta, sempre a causa di Mosca. Per due motivi. Il primo fu “l’autunno caldo” del 1993, l’inizio di una vera e propria guerra civile fra le massime istituzioni russe: il presidente Eltsin (riformatore, filo-occidentale) contro il parlamento, dominato da partiti nazionalisti e dal partito comunista, che si opponeva al governo Gaidar e alle sue riforme liberali.

Il braccio di ferro costituzionale si concluse con uno scontro armato nelle vie di Mosca: Eltsin fece cannoneggiare il parlamento e vinse (per il momento) il confronto con i nostalgici dell’Urss. Ma nel momento in cui non si sapeva ancora il finale, tutte le repubbliche ex sovietiche, a partire dall’Ucraina, temettero di essere invase, se avessero vinto i nazional-comunisti.

La dottrina militare russa

In novembre, finita la piccola guerra civile, lo Stato Maggiore russo pubblicò la dottrina militare definitiva. Con gran sconcerto di tutti, conteneva ancora le clausole incriminate: il diritto al primo colpo nucleare e il diritto a intervenire in difesa dei russi etnici nelle repubbliche dell’ex Urss.

A novembre, dunque, Kracvhuk ribadì l’intenzione di tenersi l’arsenale nucleare e anche Bielorussia e Kazakistan, più propensi a un compromesso, cambiarono idea. Tutto da rifare.

La firma del Memorandum

A cambiare il corso della storia fu soprattutto la crisi dell’Ucraina, dovuta alla mancanza di riforme di un’economia ancora pianificata. Alla fine del 1993 e inizio 1994 la repubblica ex sovietica era sull’orlo della bancarotta.

Le elezioni del 1994 vennero vinte da un ex ingegnere sovietico, Leonid Kuchma, dietro la promessa di stabilizzare l’economia. Kuchma, negli anni successivi, si rivelerà il padre degli “oligarchi” e il più affidabile fra gli alleati di Mosca. Lo era già nel 1994?

Fatto sta che il nuovo presidente, il 5 dicembre 1994, firmò il memorandum di Budapest. In cambio del disarmo nucleare dell’Ucraina, la Russia prometteva di rispettare i suoi confini internazionalmente riconosciuti. Dunque anche la Crimea era riconosciuta dalla Russia stessa come parte del territorio sovrano ucraino.

Usa (Bill Clinton) e Regno Unito (John Major) diedero la garanzia internazionale di vigilare sulla inviolabilità dei confini dell’Ucraina. La stessa formula venne applicata anche a Bielorussia e Kazakistan. Essendo un memorandum e non un trattato, non era legalmente vincolante. Ma era comunque un impegno formale e scritto.

La lezione

Nel 2014, prima ancora di celebrare il ventesimo anniversario del memorandum, la Russia lo violò annettendo la Crimea. E poi, vedendo che nessuno faceva rispettare i confini del Paese confinante, invadendo tutta l’Ucraina nel 2022.

Che lezione si può trarre da questa triste vicenda? Prima di tutto che non ci si può fidare delle promesse del regime russo. E questo dovrebbe essere chiaro a chiunque cerchi di risolvere la guerra con un negoziato.

Limiti della non-proliferazione

Secondo: il principio di non proliferazione ha mostrato veramente i suoi limiti. Non per essere cinici, ma: se non hai le armi atomiche puoi essere invaso da chi le ha. Chiunque si senta minacciato da un vicino più potente, d’ora in avanti, si sentirà in dovere di proteggersi dotandosi dell’arma nucleare.

Le amministrazioni americane si sono finora sempre basate sul principio della non-proliferazione credendo, ingenuamente, che i pochi fossero anche i responsabili, che fosse meglio trattare con un solo uomo al comando che non con una pletora di piccole potenze nucleari.

Non è così, evidentemente: c’è chi approfitta della sua posizione dominante nucleare per espandere l’impero. D’ora in avanti si dovranno rivedere tutte le regole della politica di deterrenza. Cercando di capire meglio quali sono le idee dei dittatori al comando e dotati del “bottone”, piuttosto che continuare a fidarsi di vecchi schemi ereditati dalla vecchia Guerra Fredda.

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