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Twitter Files: la rimozione di Donald Trump (prima parte) – Federico Punzi

Appena pubblicato dal giornalista Matt Taibbi, a sole 24 ore dal secondo lotto, di cui ci parla oggi Max Balestra, ecco uno spin-off dei Twitter Files riguardante il processo decisionale interno a Twitter che porterà alla rimozione di Donald Trump.

Questa prima parte copre il periodo ottobre 2020-6 gennaio 2021. Domani, Michael Shellenberger ricostruirà il caos all’interno di Twitter il 7 gennaio, con i dipendenti del social anch’essi consapevoli che si trattava di un momento storico per il free speech (“il primo capo di Stato in carica a venire sospeso”). Domenica, Bari Weiss rivelerà le comunicazioni interne segrete dalla data chiave dell’8 gennaio, il giorno della rimozione definitiva.

Ancora una volta emergono da questi documenti l’erosione degli standard all’interno dell’azienda, anche nei mesi precedenti la fatidica data del 6 gennaio, quella del noto assalto al Congresso, le decisioni dei dirigenti di alto livello di violare le proprie policy e, ancora, l’interazione permanente e documentata con agenzie federali.

Il “contesto”

Ciò che emerge dai file è che l’account di Trump è stato rimosso fondamentalmente per quello che un dirigente di Twitter ha definito il “contesto complessivo“, ovvero le “narrazioni” di Trump e dei suoi sostenitori “nel corso delle elezioni e negli ultimi quattro anni”. I suoi tweet “violano le nostre regole se teniamo in considerazione il contesto storico e il clima attuale”. Insomma, il quadro generale.

Il dirigente richiama l’esempio del “gridare al fuoco nel teatro affollato”, metafora su cui si basò una delle peggiori sentenze della Corte Suprema – più volte rinnegata dalla stessa Corte – sul free speech.

“Il grosso del dibattito interno che ha portato al bando di Trump ha avuto luogo in quei tre giorni di gennaio”, spiega Taibbi. “Tuttavia, la cornice intellettuale è stata posta nei mesi precedenti”.

Un mix di strumenti di censura

La censura veniva attuata da un mix unico di applicazione automatica delle regole e moderazione soggettiva dei dirigenti senior. Come riportato da Bari Weiss, l’azienda disponeva di una vasta gamma di strumenti per manipolare la visibilità, la maggior parte dei quali sono stati lanciati contro Trump (e altri) prima del 6 Gennaio.

Con l’avvicinarsi delle elezioni, gli alti dirigenti, “forse” sotto la pressione delle agenzie federali, con le quali tenevano incontri settimanali, hanno iniziato a parlare di “violazioni” delle regole come “pretesti per fare ciò che probabilmente avrebbero fatto comunque”.

I protagonisti sono i già noti Yoel Roth, Vijaya Gadde e l’ex FBI, poi legale di Twitter, Jim Baker.

La censura durante le elezioni

Taibbi riporta in particolare di un “canale” aperto l’8 ottobre 2020, chiamato “us2020_xfn_enforcement”, come il luogo delle discussioni sulle rimozioni legate alle elezioni, in particolare quelle che riguardavano account di “alto profilo” (spesso chiamati “VIT” o “Very Important Tweeter”).

C’era “una certa tensione” tra le Operazioni Sicurezza – un dipartimento più grande il cui staff utilizzava un processo più attinente alle regole per affrontare problemi come pornografia, truffe e minacce – e “una squadra più piccola e potente di dirigenti politici senior come Roth e Gadde”.

Quest’ultimo gruppo era una sorta di “Corte Suprema di moderazione ad alta velocità”, che emetteva al volo sentenze sui contenuti, spesso in pochi minuti e sulla base di supposizioni, chiamate istintive, persino ricerche su Google, anche nei casi che coinvolgevano il presidente Trump.

La collusione con l’FBI

Durante questo periodo, i dirigenti stavano chiaramente collaborando con FBI e agenzie di intelligence sulla moderazione dei contenuti relativi alle elezioni.

Al direttore delle policies Nick Pickles un impiegato chiede se devono dire che Twitter rileva “disinformazione” attraverso “ML, revisione umana e **partnership con esperti esterni*? So che è stato un processo scivoloso… non sono sicuro se vuoi che la nostra spiegazione pubblica si basi su questo”.

Pickles prima risponde “forse potremmo dire semplicemente partnerships“. E dopo una pausa aggiunge: “per esempio, non sono sicuro che potremmo definire FBI/DHS come esperti”.

Dunque, qui si trova un’altra conferma: a indicare a Twitter cosa fosse “disinformazione” erano anche agenti dell’FBI e del DHS (Dipartimento della Sicurezza interna).

Taibbi riporta anche un messaggio sulla storia del laptop di Hunter Biden che rivela come Roth tenesse incontri settimanali non solo con FBI e DHS, ma anche con l’Ufficio del direttore dell’Intelligence nazionale (DNI).

Ed anche qui troviamo la conferma che ai social era stato trasmesso il messaggio che del “materiale hackerato” stesse per venire fuori e che fosse per loro ovvio che si trattasse della storia del New York Post.

Da un altro messaggio emerge che addirittura l’FBI inviava segnalazioni su singoli tweet, in questo caso quello di un ex consigliere della contea di Tippecanoe, Indiana, repubblicano, di nome @JohnBasham, che afferma “tra il 2 e il 25 per cento delle schede elettorali per posta vengono respinte per errori”.

Il tweet segnalato dall’FBI è stato diffuso nell’applicazione Slack. Twitter ha citato Politifact per dire che la prima storia è stata “dimostrata falsa”, poi ha notato che la seconda era già considerata “non vio in numerose occasioni”.

Il gruppo decide quindi di applicare un’etichetta “Scopri come votare è sicuro e protetto”, perché un commentatore dice che “è del tutto normale avere un tasso di errore del 2 per cento”. Roth dà quindi il via libera finale al processo avviato dall’FBI.

Valutazioni soggettive

Un tweet ironico dell’ex governatore dell’Arizona Mike Huckabee sull’invio di schede elettorali ai suoi “genitori e nonni deceduti” viene trattato come un “caso limite” e, sebbene qualcuno osservi “non facciamo eccezioni per battute o satira”, alla fine decidono di lasciarlo stare, perché “abbiamo colpito abbastanza orsi“. Ma “potrebbe ancora fuorviare le persone”, obietta qualcuno.

Roth suggerisce che la moderazione anche in questo caso assurdo potrebbe dipendere dal fatto che lo scherzo provochi o meno “confusione”.

Nei documenti, i dirigenti spesso estendono i criteri a valutazioni soggettive come l’intenzione (sì, un video è autentico, ma perché è stato mostrato?), l’orientamento (è stato mostrato un tweet vietato per condannare o supportare?) o come un tweet venga interpretato (la battuta può generare “confusione”?).

Sorvegliato speciale

In un altro caso riportato da Taibbi, i dipendenti di Twitter si preparano ad applicare un’etichetta “Il voto per posta è sicuro” su un tweet di Trump riguardante l’invio di schede errate in Ohio, prima di rendersi conto che “gli eventi hanno avuto luogo”, cioè il tweet era “effettivamente accurato”.

I tweet di Trump venivano “filtrati in termini di visibilità” fino ad una settimana prima delle elezioni. Anche senza particolari violazioni, si assicuravano che non potessero esserci “risposte, condivisioni o like“. E il gruppo era soddisfatto di come i tweet di Trump venissero trattati rapidamente.

Doppio standard

Etichetta per la deputata repubblicana della Georgia Jody Hice per aver twittato: “Dì no alla censura di Big Tech!” e “Le schede elettorali per posta sono più soggette a frodi rispetto al voto in presenza … È solo buon senso”.

Al contrario, diversi tweet pro-Biden in cui si avverte che Trump “potrebbe tentare di rubare le elezioni” non vengono considerati fuorvianti, ma vengono approvati senza etichette. In questo caso, sostengono i dirigenti, “esprimono solo preoccupazione per il fatto che le schede per posta potrebbero non arrivare in tempo”.

Persino un hashtag #StealOurVotes – che fa riferimento ad una teoria secondo cui Trump avrebbe rubato le elezioni con l’aiuto del giudice Amy Coney Barrett – viene approvato dai vertici di Twitter, in netta contraddizione con il metro di giudizio usato per i tweet di Trump e dei Repubblicani, perché “comprensibile” e un “riferimento ad una decisione della Corte Suprema”.

Una etichetta fu applicata ad un tweet in cui l’ex procuratore generale Eric Holder affermava che il servizio postale era stato “deliberatamente paralizzato”, apparentemente dall’amministrazione Trump, ma fu rapidamente rimossa da Roth.

La deamplificazione

Il 10 dicembre, mentre Trump twittava a raffica cose come “Un colpo di stato sta avvenendo davanti ai nostri occhi”, i dirigenti di Twitter annunciavano un nuovo strumento di “deamplificazione L3”, che stava a indicare che un’etichetta ora poteva anche comportare la deamplificazione.

Significativo, osserva Taibbi, perché mostra che Twitter, almeno nel 2020, stava implementando una vasta gamma di strumenti visibili e invisibili per tenere a freno Trump, molto prima del 6 Gennaio.

Nei documenti di Twitter i dirigenti fanno spesso riferimento a “bot”, ad esempio “mettiamoci sopra un bot“. Una regola di moderazione automatizzata, un’azione che scatta, per esempio, ogni volta che un account usa determinate parole nella stessa frase.

Un vocabolario orwelliano

Non c’è modo, conclude Taibbi, di seguire i frenetici scambi tra il personale di Twitter dal 6 all’8 gennaio senza conoscere le basi del vasto lessico di acronimi e “non parole” orwelliane dell’azienda.

“Rimbalzare” un account, per esempio, significa metterlo in pausa, di solito per una revisione di 12 ore. “Interstitial” significa mettere un’etichetta fisica sopra un tweet, in modo che non possa essere visto.

Molto prima del giorno dell’assalto al Congresso, Twitter era impegnata in un progetto intrinsecamente folle e impossibile, cercando di creare un insieme di regole in continua espansione e apparentemente razionale per regolare ogni possibile situazione linguistica che potesse presentarsi.

Per quanto assurdo, osserva Taibbi, i vertici non se ne sono accorti, contagiati da dinamiche di gruppo, arrivando a credere – sinceramente – che fosse responsabilità di Twitter controllare, per quanto possibile, di cosa le persone potevano parlare, quanto spesso e con chi.

Il 6 Gennaio: panico

Il 6 gennaio “scoppia il panico” ma nei documenti c’è ancora l’intenzione di attenersi almeno superficialmente alle regole, di agire solo “se” un tweet “costituisce incitamento”. Ma al terzo giorno della crisi, “un milione di regole sono state ridotte ad una: quello che diciamo, va bene“.

Alle 14.39 del 6 gennaio viene chiesto a Roth se ha limitato la possibilità di twittare di Trump. Risponde di no. Pochi minuti dopo, la storica decisione di “rimbalzare” Trump, cioè metterlo in pausa.

La prima e-mail a livello aziendale di Gadde il 6 gennaio annunciava che tre tweet di Trump erano stati “rimbalzati”, ma soprattutto indicava la determinazione a utilizzare le “violazioni” legittime come guida per qualsiasi possibile sospensione permanente.

Entro la fine del 6 gennaio, i massimi dirigenti stanno ancora cercando di applicare le regole. Entro il giorno successivo, considereranno un importante cambio di approccio. L’8 gennaio la rimozione definitiva del presidente in carica, tra gli applausi dei “nostri partner” a Washington.

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