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Teatro Nuovo, sinergie per coinvolgere giovani e quartieri

INTERVISTA – Il Teatro Nuovo di Verona, progettato dall’architetto Enrico Storari, viene inaugurato nel settembre 1846, con l’Attila di Giuseppe Verdi. La vocazione operistica originaria si affievolisce però a partire dal secondo dopoguerra, momento in cui gli spettacoli in prosa prendono il sopravvento sull’opera nel cartellone del teatro. Dal 2005 quest’istituzione culturale ha ottenuto la qualifica di Teatro Stabile e oggi, in linea con la svolta post bellica, è nota soprattutto per due rassegne di carattere prosastico: Il Grande Teatro e Divertiamoci a teatro, che vantano, a livello attoriale e registico, importanti nomi dello scenario teatrale italiano. Per conoscere più nel dettaglio le prospettive del Teatro Nuovo all’interno del contesto veronese, abbiamo intervistato Pier Mario Vescovo, professore ordinario di Discipline dello spettacolo presso l’Università di Venezia e direttore artistico dello Stabile di Verona da febbraio 2021.

Piermario Vescovo

Piermario Vescovo

– Vescovo, quali criticità ha notato nel mondo teatrale scaligero da quando è arrivato a Verona?

Vescovo. «La realtà veronese mi pare vivace. La questione però è come mettere in relazione tutte le sue componenti per creare qualcosa insieme. Sarebbe utile anche per il Teatro Nuovo che, essendo legato soprattutto alle due stagioni Il Grande Teatro e Divertiamoci a teatro, vorrebbe aprire qualche altro fronte».

– Lei proviene da Venezia e ha frequentato molto Napoli. C’è qualche spunto che il teatro veronese dovrebbe prendere da queste realtà per migliorarsi?

Vescovo. «Verona fa storia a sé perché dipende principalmente dall’opera. Posso però dire che dovrebbe sfruttare maggiormente, accanto ai teatri storici, i numerosi spazi cittadini usufruibili e il profondo legame che alcuni autori, come Goldoni o Shakespeare, hanno con la città».

– Il Romeo di Shakespeare diceva: “Non c’è mondo al di fuori delle mura di Verona”. Non sarebbe il caso di contraddirlo attraverso qualche collaborazione internazionale, magari proprio con lo Shakespeare Globe Theatre?

Vescovo. «Nessuna città italiana appare nelle opere di Shakespeare con la stessa intensità di Verona ed è un dato di fatto che va tenuto presente. Ma le collaborazioni internazionali richiedono anche progetti e capacità di creare relazioni. Un lavoro lungo, in cui anche noi confidiamo».

– A livello locale invece siete disponibili a sondare eventuali sinergie con altre realtà culturali?

Vescovo. «Qualcosa già si muove. Abbiamo partecipato a due incontri con quasi tutti i gruppi professionali dell’ambito teatrale di Verona, nella cornice di un nuovo progetto comunale che intende espandere il teatro dal centro ai quartieri limitrofi. Poi, in generale, il Teatro Nuovo convoglia nel suo cartellone lavori di altre compagnie locali ed è aperto alle collaborazioni».

– Ha avuto la percezione di una Verona che guarda solo al suo cortile nel campo della cultura?

Vescovo. «La tendenza di guardare solo al proprio orticello è diffusa ovunque, non solo a Verona. Anzi, in questo senso direi che Venezia è peggio. I problemi più rilevanti per il mondo del teatro sono altri».

– Per esempio?

Vescovo. «La difficoltà nel coinvolgere un pubblico giovanile. Questo è un nostro obiettivo, anche perché Verona è una città universitaria e gli studenti rappresentano un potenziale target che stiamo cercando di avvicinare attraverso una convenzione con l’Esu».

– In che modo si può far crollare l’idea del Teatro come luogo noioso e d’élite, mantenendo nel contempo un certo spessore culturale?

Vescovo. «Farla crollare è difficile, piuttosto occorre erodere progressivamente questo modo di percepire il teatro. Concedere agevolazioni economiche sul biglietto d’ingresso non basta, bisogna anche suscitare interesse promuovendo un’offerta culturale variegata, e non è un’impresa facile. C’è poi una divisione storica tra gli ambiti delle principali strutture teatrali veronesi, penso ad esempio al Teatro di ricerca, per certi aspetti più impegnativo, che non rientra nei nostri obiettivi».

– Sia il Camploy che il Ristori inseriscono la musica nel loro cartellone…

Vescovo. «Nella visione comunale e nel suo sviluppo pratico i generi sono distribuiti: il Teatro Nuovo non fa danza o musica, se non in particolari occasioni».

– Anche le tre rassegne teatrali più conosciute di Verona – l’Estate teatrale veronese, il vostro Grande Teatro e L’Altro Teatro del Camploy – fanno riferimento al Comune. Questo non limita la pluralità dell’offerta culturale?

Vescovo. «Può essere, ma c’è anche un risvolto positivo. Significa che Verona si prende cura del teatro. Infatti c’è anche una programmazione estiva, peculiarità che in altre città, come Venezia, non è presente. Questa maggiore cura dipenda da un’organizzazione storica del teatro veronese ben definita, la quale non va destabilizzata, ma incrementata dal punto di vista dell’offerta sì».

– Prima ha accennato alla possibilità di utilizzare per il teatro alcuni spazi cittadini…

Vescovo. «È molto complicato fare teatro al di fuori dello stesso, ma ne vale la pena, anche perché ha potenzialità turistiche. Le città storiche italiane dispongono di spazi molto suggestivi e Verona non è da meno: da direttore artistico del Teatro Nuovo, ho inscenato uno spettacolo nella terrazza sul cortile di Giulietta e uno al Lapidario Maffeiano, mentre, da spettatore, ricordo con piacere quando L’Estate teatrale utilizzava Giardino Giusti, cosa che non avviene più».

– Come sta il Teatro Nuovo a livello di bilancio?

Vescovo. «Abbastanza bene. Da quando sono arrivato non abbiamo perso nulla, ma bisogna dire che veniamo dal periodo pandemico, in cui le vendite dei biglietti e la concessione del teatro in affitto a terzi sono calate in maniera importante».

– E dal punto di vista del personale? Durante la pandemia le figure lavorative del teatro, anche quelle che operano dietro le quinte, non hanno potuto lavorare…

Vescovo. «Essendo arrivato durante la pandemia, ho un’idea relativa di com’era prima. In ogni caso ora il nostro personale è ampio, la situazione non è peggiorata».

– Pasolini sosteneva che il teatro fosse un rito sociale o, nel caso del teatro dei gesti, un rito religioso, ma dichiarava l’intento di renderlo un rito culturale. Oggi che cos’è il teatro?

Vescovo. «Oggi solo il teatro d’opera si lega in qualche modo al prestigio sociale. Il nostro teatro invece è intrattenimento, nel quale possono certamente rientrare prospettive culturali. Cultura non significa noioso: alla lunga anche il semplice intrattenimento può stufare».

– Quale proposta culturale si sente di avanzare alla nuova assessora Ugolini?

Vescovo. «In questa fase bisogna meditare. La Giunta si è insediata da poco e, dopo le difficoltà degli ultimi anni, solo ora si sta tornando a vivere una situazione normale. In più, al momento, le discussioni vertono sulla questione del transito dal nostro teatro per far accedere i turisti al cortile di Giulietta».

– Un commento sulla questione?

Vescovo. «Il Teatro Nuovo dispone di una porta che si affaccia sul cortile di Giulietta: questa vicinanza con una delle principali attrazioni turistiche di Verona è da sfruttare. Tuttavia la questione del transito dei flussi di gente non costituisce una collaborazione culturale, ha come solo scopo la gestione della viabilità cittadina. Da qui però potrebbe nascere qualcosa».

– Ma vi piace l’idea di questo flusso di gente all’interno del vostro teatro?

Vescovo. «È un’arma a doppio taglio: può arrecare disturbo, impedendo lo sfruttamento di alcuni spazi, ma può anche far conoscere il teatro ai turisti. Bisogna però catturarli, farli diventare spettatori: magari attraverso un itinerario culturale».

Gregorio Maroso

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