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Perché i giudici Usa hanno deciso diversamente dai nostri sull’obbligo vaccinale – Fabrizio Borasi

Uno dei più interessanti commenti alle recenti sentenze della Corte costituzionale italiana che, in parte per motivi procedurali, in parte per motivi di contenuto, hanno di fatto legittimato le misure pesantemente restrittive adottate del potere pubblico nei confronti dei cittadini durante la pandemia, è stato quello del quotidiano La Verità del 4 dicembre a firma del direttore Maurizio Belpietro.

Un confronto “impietoso” (per riprendere un termine usato nel testo) tra le decisioni della nostra Corte e quelle dei giudici americani, i quali sia a livello di Corte suprema federale che a livello di Corti supreme statali, hanno dichiarato illegittimi e quindi hanno privato di efficacia molti dei provvedimenti, alcuni analoghi a quelli italiani, anche se in genere meno restrittivi, adottati oltreoceano per contrastare la diffusione del Covid (obblighi di vaccinazione, limiti alla circolazione per i non vaccinati, sanzioni pecuniarie, licenziamenti per i dipendenti di strutture pubbliche ecc.).

Differenza di cultura giuridica

Per comprendere appieno le differenze tra le decisioni dei giudici americani e di quelli italiani è necessario, a parere di chi scrive, fare riferimento a un concetto tanto profondo quanto in apparenza quasi impalpabile, quello di cultura giuridica.

Decisioni così “impietosamente” diverse sulle restrizioni anti-Covid perché la cultura giuridica americana e quella italiana sono profondamente differenti, per molti versi diametralmente opposte, tra loro. Per cultura giuridica intendo qui essenzialmente il modo con cui il giudice si pone di fronte alle parti in causa, in particolare quando una di esse è il potere pubblico, e quindi intendo il modo con cui il giudice si pone di fronte al rapporto tra potere pubblico e cittadini.

Si tratta ovviamente non di un fatto psicologico che riguarda il singolo giudice, ma appunto di una realtà culturale, di un modo di ragionare e di intendere il proprio ruolo che coinvolge di fatto tutti i giudici che operano in determinato Paese, una cosa simile al linguaggio che coinvolge necessariamente tutti coloro che lo parlano.

Dal punto di vista dei cittadini o del potere

La principale differenza che si è rivelata evidente anche nelle sentenze sulle restrizioni anti-Covid si può riassumere nel diverso punto di vista adottato dai giudici americani e da quelli italiani nel valutare il rapporto tra potere pubblico e cittadini.

I primi nell’operare tale valutazione si sono posti dal punto di vista dei cittadini e, in base ai diritti di libertà (di movimento, di scegliere un trattamento sanitario, di lavorare ecc.) spettanti agli stessi, hanno valutato se e fino a che punto il potere pubblico potesse limitare tali diritti, giudicando anche nel merito, secondo i criteri del “giudizio rigoroso” (“strict scrutiny”) sempre applicati quando si fa questione dei diritti individuali fondamentali, se le misure prese fossero realmente efficaci a contenere l’epidemia o se invece non addossassero ai cittadini degli obblighi senza comportare alcun beneficio per l’interesse generale.

I giudici italiani, viceversa, come sempre fanno nell’esprimere il loro giudizio, e come si può capire già dalle sommarie anticipazioni sul contenuto delle pronunce, si sono messi dalla parte del potere pubblico ed hanno sostanzialmente valutato se le restrizioni poste in essere siano state abbastanza razionali ed abbiano operato una non illogica mediazione tra le esigenze pubbliche di contenere la pandemia ed i diritti individuali sacrificati, senza giudicare nel merito gli effetti dei provvedimenti restrittivi.

Sistemi anglosassoni ed europei continentali

Una differenza non da poco che non si limita naturalmente al caso Covid, ma riguarda tutto il funzionamento dei rapporti tra potere giudiziario e potere politico, una differenza inoltre (ampliamo il nostro discorso) che riguarda non solo l’Italia e gli Stati Uniti, ma che coinvolge tutti i Paesi occidentali e contrappone i sistemi anglosassoni (Gran Bretagna, Stati Uniti, Australia ecc.) a quelli europeo continentali (Italia, Francia, Germania ecc.).

La sovranità

Le sue origini affondano le loro radici nella storia. Il sovrano medievale era tradizionalmente raffigurato mentre impugnava una spada in una mano e teneva un libro nell’altra.

Questi due simboli rappresentavano le due parti del potere di cui disponeva: la spada simboleggiava l’imperium (o gubernaculum) e si riferiva a tutte quelle attività che il sovrano svolgeva nell’interesse generale, la difesa esterna, la polizia, le opere pubbliche, le riscossioni delle imposte, nonché ovviamente la gestione delle crisi sanitarie: oggi chiameremmo questo il potere “politico”.

Il libro rappresentava la iurisdictio e si riferiva alla tutela dei diritti dei singoli, anche nei confronti degli abusi commessi dagli stessi funzionari regi nell’esercizio dei loro poteri di imperium; oggi chiameremmo questo il potere “giuridico”.

Nel basso medio evo il sovrano condivideva questi poteri con tutta una serie di soggetti (nobili, ecclesiastici, comunità cittadine o corporative ecc.); con l’età moderna e il sorgere dello Stato nel senso attuale, i poteri vennero a concentrarsi in un’unica entità ma con due esiti profondamente diversi, in parte per motivi legati alla cultura religiosa.

La separazione dei poteri

Nelle isole britanniche, influenzate dalla cultura individualista del protestantesimo riformato (spesso detto impropriamente “calvinista”), il potere politico (imperium) e quello giuridico (iurisdictio) si concentrarono nello Stato, ma rimasero separati, e si crearono così due sfere (quella giuridica e quella politica) staccate tra loro e soggette a regole e a logiche distinte, di modo che l’una limitava l’altra, ed in particolare tutte le attività dirette a fini di utilità generale trovavano il loro limite nel rispetto dei diritti individuali: nasceva in tal modo la monarchia a potere limitato.

Anche dopo la teorizzazione della divisione dei poteri di Montesquieu, e la democratizzazione del potere statale con il suffragio universale dei secoli XIX e XX, i sistemi anglosassoni, in particolare quello statunitense si basano pur sempre su questa fondamentale distinzione tra politica e diritto.

I giudici americani nel giudicare il rapporto tra Stato e cittadini si pongono dal punto di vista di questi ultimi perché stanno esercitando un potere, quello giuridico, che prevale per quanto riguarda la tutela dei diritti individuali, sul potere politico diretto a realizzare gli scopi di utilità generale.

È il principio della supremazia del diritto (rule of law) rispetto alla politica: nemmeno le leggi del Congresso possono toccare i diritti individuali derivanti dalla tradizione del common law e trascritti nella Costituzione.

Diritto emanazione della politica

Una diversa vicenda si svolse all’inizio dell’età moderna nell’Europa continentale, dove le due culture religiose dominanti (quella luterana nel nord e quella cattolica nei Paesi latini) privilegiavano entrambe, sia pure in maniera molto diversa tra loro, i valori collettivi su quelli individuali.

Anche al di qua della Manica i poteri si concentrarono nello Stato, ma non rimasero separati e si fusero tra loro in un’unica potestà, quella del sovrano, portando alla nascita della monarchia a potere assoluto.

Naturalmente anche il sovrano assoluto, a differenza degli autocrati orientali, non agiva in maniera arbitraria, ma seguendo determinate regole, solamente che tali regole erano dettate dallo stesso sovrano ed erano finalizzate a mediare tra le esigenze generali e i diritti individuali.

Con la democratizzazione si distinsero anche nel continente i tre poteri dello Stato. L’Esecutivo fu obbligato a rispettare le leggi, secondo i principi dello “stato di diritto” (il Rechtsstaat, degli studiosi tedeschi), ma il diritto rimase in sostanza (e tale rimane ancora oggi, nonostante le costituzioni della seconda metà del novecento) una emanazione della politica, secondo il principio: la politica fa le leggi, i giudici le applicano, cosa che su uno scalino più alto vale anche per i giudici costituzionali in riferimento alla costituzione.

Il ruolo del giudice costituzionale

Se dunque la politica ha il compito di mediare tra interesse generale e diritti individuali, il ruolo del giudice, e in particolare delle Corti costituzionali, diventa quello di controllare la legittimità dell’azione del potere politico, operando (inevitabilmente) dallo stesso punto di vista di quest’ultimo.

Il che non esclude certo che le Corti costituzionali possano dichiarare illegittime delle leggi anche importanti emanate dal potere legislativo, solo che quando lo fanno, lo fanno non dal punto di vista dei diritti individuali, ma dal punto di vista della correttezza, della ragionevolezza o meno delle norme oggetto del giudizio.

Se è vero quanto detto (a chi fosse interessato ad approfondire questi argomenti segnalo un libro di qualche anno fa, ma sempre fondamentale in materia: Charles Howard McIlwain, “Costituzionalismo antico e moderno”, nella traduzione italiana curata da Nicola Matteucci), la situazione è talmente radicata nella storia che non è facile da modificare e rispecchia una diversa concezione dei rapporti sociali che va ben oltre l’ambito giuridico-politico: è però importante tenere conto di tale fondamentale differenza.

Più Occidenti

Nonostante tutte le affermazioni (oggi purtroppo di moda) di segno contrario, la conoscenza storica rappresenta tuttora la strada migliore per comprendere il presente e per cercare, non di prevedere (il che è impossibile) ma di delineare le possibili linee della sua evoluzione futura.

Grazie allo studio della storia si può capire che nell’ambito della civiltà occidentale esistono Paesi dove la tutela dei diritti individuali è più forte (quelli anglosassoni) e Paesi in cui essa è più debole e dipendente dall’interesse politico generale (quelli europei continentali), esistono cioè Paesi a liberalismo “forte” e Paesi a liberalismo “debole”.

In Italia diritti più vulnerabili

Tra questi ultimi il nostro è particolarmente vulnerabile perché a differenza ad esempio di Germania e Francia dove almeno le leggi sono in generale chiare e soggette a interpretazioni univoche, in Italia le norme sono spesso farraginose, dettagliate all’eccesso e talora difficili da applicare letteralmente, e ciò rende sia il potere politico sia il controllo giudiziario sullo stesso ampiamente discrezionali, troppo discrezionali.

Inoltre, da noi il rispetto delle leggi va talora oltre il dovere di tenere un dato comportamento e si traduce quasi (analogamente a quanto avviene in molti stati sudamericani) in una questione di fedeltà al potere pubblico e ai suoi scopi, il che porta quasi ad un “marchio” di antisocialità per chi non si conforma, e questo senza una valutazione concreta sui pro e sui contro, sui costi e sui benefici reali, anche in termini di interesse generale (senza contare ovviamente il sacrificio dei diritti individuali) di un dato provvedimento.

È quanto accaduto con la gestione delle misure restrittive anti-Covid. Si ricordino le frasi: “Chi non si vaccina uccide”; “I non vaccinati saranno rinchiusi come sorci”, pronunciate da esponenti del governo.

Almeno il buon senso

Forse non è pensabile che l’Italia diventi simile agli Stati Uniti (che ovviamente non sono uno Stato perfetto, ma uno Stato molto più liberale del nostro), ma si può sperare almeno che la consapevolezza della nostra “debolezza” a livello di tutela dei diritti individuali porti in futuro a soluzioni di buon senso da parte della politica quando la stessa dovrà (in particolare nei casi di emergenza) bilanciare l’interesse generale e i diritti dei singoli.

Se il sistema dei rapporti tra politica e diritto, per le ragioni culturali che si è cercato di illustrare, non sempre è sufficiente a tutelare tali diritti, l’unica cosa in cui si può sperare è il buon senso dei governanti e, spiace dirlo, e con tutto il rispetto per coloro che hanno gestito l’emergenza, durante la gestione della pandemia troppo spesso è mancato anche quello.

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