All’indomani del lancio della candidatura di Elly Schlein, non è la sua corsa a preoccupare l’ala riformista, convinta che il consenso di Stefano Bonaccini sia più solido.
La preoccupazione è per la piega che sta prendendo la discussione dei “saggi costituenti” che devono scrivere il nuovo manifesto del Pd, prima dell’elezione del nuovo segretario. Il testo dovrebbe essere la nuova costituzione del partito, ma la torsione gauchista del dibattito inquieta i sostenitori di Bonaccini (non lui, che resta alla larga dalla discussione e «da ogni polemica», come ha promesso da subito). E dall’altra parte, se non cambiasse il testo, Schlein si troverebbe a diventare segretaria, dunque interprete, di un Pd di stampo veltroniano.
Nella prima riunione, giovedì scorso, dopo l’introduzione «metodologica» di Enrico Letta, garante del comitato, è stato Roberto Speranza, segretario di Art.1 ma anche co-garante, a istruire la pratica del cambiamento «radicale» del manifesto del 2007, bollandolo come troppo lasco contro il «neoliberismo». Il dibattito che ne è seguito è finito sui giornali scatenando le ironie dei riformisti e i dubbi di qualche “fondatore”.
Il costituzionalista Stefano Ceccanti ha scritto una lettera aperta al segretario, e gli ha posto alcune «domande di sistema». Tra cui una, cruciale: il mandato del comitato «è di proporre all’Assemblea di aggiornare un Manifesto o di azzerarlo? », «Un’Assemblea ad un mese dalla sua scadenza ha la legittimazione per operare la prima scelta, non la seconda. Chi sostiene la seconda posizione dovrebbe chiedere un mandato a iscritti ed elettori per la prossima Assemblea, non utilizzare questa per fini impropri e, quindi, illegittimi».
Nei giorni successivi Letta ha intrapreso un’attività diplomatica per calmare gli animi. E ha dato mandato al suo braccio destro Marco Meloni di fare lo stesso. Tempo ce n’è, del resto. Solo che il tempo rischia di moltiplicare le occasioni di polemica. Lo si è visto anche ieri.
Su La7 il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, ha spiegato che la sua permanenza nel Pd dipende proprio dall’esito della discussione dei saggi: «È in corso il tentativo di cambiare i fondamenti del Pd. Se verranno stravolti lascerò il partito perché sarà diventato altra cosa».
Fra Blair e Togliatti
Reagisce Andrea Orlando: «Adesso Gori dice che se si cambia la carta se ne va. Ma perché non avete detto di no alla fase costituente allora? Il liberismo è messo in discussione a livello teorico e nei fatti in tutto il mondo, a partire dagli Usa, in Italia non se ne può nemmeno parlare. Pena scomunica».
Poi ha reso pubblica una sua proposta di modifica: «I democratici cercheranno la continua democratizzazione non solo dell’economia, ma anche della vita lavorativa e degli altri aspetti della vita, aumentando la trasparenza e definendo le regole con cui opera il mercato», dice un passaggio, e un altro che «la proprietà pubblica dei mezzi di produzione deve essere valutata e decisa sulla base dell’adeguatezza e dell’interesse generale della società.
I democratici promuovono la diversificazione sociale della proprietà, ad esempio attraverso le cooperative». Ai riformisti più studiosi la prosa ricorda la famosa (per amanti del genere) clausola 4 che nel 1995 Tony Blair fece modificare nello statuto del Labour, quando sbianchettò il «controllo dello stato sull’economia» sostituendolo con l’aspirazione all’efficienza e alla competitività.
Ma no, lasciamo stare Blair, replica Andrea Romano. Che risponde con una battuta, anzi due: «Ricordo a Orlando che per le aziende dove lo stato ravvisa un interesse pubblico esiste già il Golden Power, dal 2012. Ma soprattutto questa proposta mi sembra un passo indietro persino rispetto a Palmiro Togliatti, che in “Ceto medio ed Emilia Rossa” invita il Pci ad aprirsi alle sensibilità del piccolo e medio imprenditore. Era il 1946».
Il giorno prima, domenica, il padre nobile Pierluigi Castagnetti ha scoccato un tweet severo: «Costituente (?) del Pd. Un gruppo di nominati, in buona parte neppure elettori, che attraverso la modifica di statuto e carta dei valori vuole far cambiare natura al Pd. Ma se cambia natura non è più il Pd. Semplice. Fermate la giostra, per favore».
Gli ha risposto un altro padre, ma dell’Ulivo, Arturo Parisi: «E infatti: il Comitato non è Costituente del Pd, ma di un nuovo Partito, somma di due Partiti tra loro distinti, Pd e Art.1, e perciò guidato dai rispettivi segretari come garanti del processo e dell’approdo. Questo l’incredibile deliberato unanime della Assemblea Pd». Se non è la scomunica del congresso costituente, poco ci manca. C’è tempo per rimediare, ma appunto il tempo può anche complicare le cose. E condurle al fallimento. L’assemblea nazionale che dovrebbe approvare il nuovo Manifesto sarà il 22 gennaio. Oggi e domani si riuniscono i «sottocomitati» che devono formulare le proposte di modifica sui punti specifici. Il 16 dicembre è prevista una nuova plenaria.
La bussola
Per aggiungere carne al fuoco, da oggi il Nazareno distribuisce via email “la bussola”, un questionario compilabile fino al 3 gennaio 2023 da chi parteciperà al congresso «per permettere che la sintesi dei risultati sia trasmessa al Comitato Costituente in tempo utile» dice la nota di accompagnamento, per contribuire alla scrittura del Manifesto del nuovo Pd.
Una ventina di domande: dal «senso profondo della missione del nuovo Pd» alla legge elettorale, dall’eventualità di partecipare a governi di larghe intese alle ragioni di cui andare orgogliosi, e ai problemi del Pd.
Le risposte verranno elaborate da Ipsos. Ma alla fine chi farà la famosa sintesi con le proposte dei saggi? Anche questo ancora non è chiaro.
E se le risposte di fatto radicalizzassero il manifesto? Ceccanti continua ad avanzare dubbi di metodo. L’assemblea che dovrà approvare il testo finale «è a fine mandato. Non è legittimata a riscrivere da zero il manifesto». Sempreché un testo davvero arrivi. La cosa più probabile è che all’assemblea uscente un testo venga consegnato, per essere però approvato da quella nuova, composta in maggioranza dai sostenitori del nuovo segretario. E se la vedranno loro.
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