C’è un logica: in tempi di guerra, nulla è più importante della lealtà nei confronti degli alleati e della disponibilità al conflitto. Tutto il resto, persino, oggi, una certa ortodossia rispetto al Pnrr, perde gradualmente di importanza e passa fatalmente in secondo piano
È stata la sua intuizione decisiva in vista della campagna elettorale, è oggi l’elemento che più tiene in vita il suo governo. Se c’è una scelta che ha accreditato e accredita Giorgia Meloni, e con lei l’Italia, agli occhi dell’establishment e del potere internazionale è la scelta di campo, senza se e senza ma, si sarebbe detto in altri tempi, nel conflitto ucraino. Con gli ucraini, con la Nato, con gli Stati Uniti. E contro Putin. Costi quel che costi. Una scelta politica che per la leader di un partito le cui radici affondano anche nell’antiamericanismo sembra divenuta ormai un tratto identitario.
Una posizione così apprezzata da autorizzare qualche licenza sull’Europa. Non nella sostanza, tant’è che la prima scelta del premier non ancora incaricato per il ministero dell’Economia fu Fabio Panetta, capofila indiscusso della filiera Bankitalia-Bce, ma nella forma. Ne si è avuta la dimostrazione plastica ieri, quando la polemica sulle carenze e l’invadenza di Bruxelles hanno fatto seguito alla linea della fermezza nei confronti della Federazione Russa ribadita con enfasi tanto da Giorgia Meloni alla Camera quanto dal ministro della Difesa Guido Crosetto in Senato. La polemica non ha lasciato traccia, la fermezza è stata molto apprezzata.
C’è un logica: in tempi di guerra, nulla è più importante della lealtà nei confronti degli alleati e della disponibilità al conflitto. Tutto il resto, persino, oggi, una certa ortodossia rispetto al Pnrr, perde gradualmente di importanza e passa fatalmente in secondo piano.
Detta altrimenti, e con sintesi brutale, sembra esserci una proporzionalità diretta tra la prosecuzione della guerra di Putin e la speranza di durata del governo Meloni I.