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Gli scultori veronesi del Trecento e il ritorno dell'ultimo Scaligero

Scultori veronesi del Trecento

Scultori veronesi del Trecento

Quando eravamo ricchi – di due banche, un’assicurazione, la Mondadori, quella vera di Arnoldo – quando arrivava il Natale c’era l’annuale tradizione veronese delle strenne editoriali. Il mecenatismo culturale produceva grandi libri illustrati: grandi non solo per dimensioni e illustrazioni, ma per il contributo di conoscenza che arricchiva biblioteche pubbliche e private.

Generazioni di ricercatori ebbero così l’occasione di cimentarsi in imprese altrimenti impossibili, finanziate da intellettuali che se ne facevano mallevadori: un nome su tutti, Giovanni Padovani alla Cassa di risparmio, il cui ricordo ha riempito di recente il teatro del Centro Mazziano, per una serata conclusasi con un Purgatorio dantesco di Alessandro Anderloni davvero strepitoso.

Proprio l’allora Cassa di risparmio di Verona, Vicenza e Belluno (non ancora di Ancona e nemmeno Unicredit di Bologna, Roma, Bruxelles o dove mai sia finita) stampò nel 1971 un libro epocale: Scultori veronesi del Trecento, capolavoro dello storico dell’arte veronese Gian Lorenzo Mellini (1935-2002).

A vent’anni dalla scomparsa dello studioso, morto a Firenze dove si era trasferito con la collega e moglie Stella Rudolph, Cierre Edizioni, superstite presidio scaligero di cultura, ha ristampato ora il volume, con un nuovo corredo di fotografie spettacolari, opera dei bresciani Basilio, Matteo e Stefano Rodella. Un trio di fotografi-acrobati-tecnologi, che grazie a droni, piattaforme aeree e attrezzature digitali hanno già mostrato meraviglie, sempre nelle collane di Cierre, nei loro recenti volumi illustrati su San Zeno e il suo celeberrimo portale.

Libro epocale, abbiamo definito questo di Mellini ora ripubblicato, perché resuscitò un’epoca: quella della Verona che con Cangrande si immaginò capitale e con Dante sembrò alzarsi davvero all’altezza del sogno. Svanito, ma non per i visionari come Mellini.

Lo storico dell’arte era un divulgatore. Sapeva che ogni narrazione deve avere un eroe e lui lo creò per la scultura veronese del Trecento, il suo-nostro secolo d’oro (altro che secoli bui!): Rigino d’Enrico.

Un nome che affiora solo una volta dagli archivi, tra i testimoni di una cerimonia nel 1343. Tanto bastò a Mellini per proclamarlo l’autore dei capolavori scultorei che lo storico andò a riconoscere ovunque, a partire dalla basilica di Sant’Anastasia voluta dagli Scaligeri come monumento della signoria veronese e delle sue ambizioni.

Così la Verona di Cangrande, grazie a Mellini, può rivendicarsi capitale anche di un’arte. Diversa da quella toscana che si è imposta, ma tuttora capace di parlarci nella nostra lingua. Nostra da sognatori, ma non di barbarie: è un discorso universale quello dell’arte, guai ad arruolare un Mellini tra i paleoleghisti. Nelle parole di lui, per far rinascere «i modi di sentire e di pensare, in una parola di essere di un’intera nazione urbana; epopea e sogno plebeo che arriva ai più alti vertici di sofisticazione signorile e poi si assesta in un razionalismo prezioso e scontroso».

Mellini e il suo ipotetico Rigino d’Enrico (che peraltro lui stesso nominava tra virgolette) furono snobbati dagli accademici. Professori che badano a non farsi capire, così diventa difficile contestarli. Mellini, insomma, si sarebbe convinto di aver trovato un maestro, fino a crearne una storia e il repertorio di capolavori. Ma, scusate, non è quello che ha fatto Dante? Non ci fa credere che crede di essere stato nell’aldilà, e che lui credeva davvero in quello che noi dobbiamo credere per credergli? Miracoli della fede. E anche dell’arte, appunto.

Torniamo a Mellini e al suo Rigino d’Enrico per sperimentare il prodigio. Ce l’abbiamo davanti agli occhi nelle chiese, nelle strade, nei musei: a Castelvecchio, nella galleria delle sculture che Licisco Magagnato e Carlo Scarpa allestirono meravigliosamente anche grazie agli studi di Mellini. Sempre scontento, peraltro: le statue delle sante Cecilia e Caterina, scrive, dovevano essere sistemate più in alto, come dovevano essere nelle chiese d’origine…

Ma il miracolo si compie. Dante in Paradiso vede uno spazio-tempo inaudito (però il veronese Carlo Rovelli, fisico e non metafisico, spiega che quella delle sfere celesti dantesche è una descrizione plausibile, alla luce delle odierne conoscenze scientifiche).

Dunque lo scrittore contemporaneo Orhan Pamuk percorre la galleria delle sculture a Castelvecchio e, rievocando come Dante l’empireo, ci trasporta in uno spazio che trascende la realtà: vede una scalinata, che a Castelvecchio non cè, ma c’è la sua ascesi nel ricordo. «Quando salii la scalinata del Museo di Castelvecchio a Verona», scrive Pamuk, «e vidi la luce setosa con cui l’architetto Carlo Scarpa ha illuminato le statue, mi fu chiaro per la prima volta che la felicità che donano i musei non riguarda solo la collezione, ma anche l’armonia e la disposizione di oggetti e dipinti».

Per chi non crede ancora, non c’è che provare a sfogliare il libro. Il testo di Mellini è anticipato da un’introduzione di Ettore Napione, già tra i conservatori del Castelvecchio riginiano-scarpiano, che come tutti gli studiosi della sua generazione non parla più di Rigino d’Enrico, ma di un anonimo (e pertanto incontestabile) “Maestro di Sant’Anastasia”. Ma Napione e la storia dell’arte rendono l’onore delle armi a Mellini: se siamo qua a beneficiare di tanta bellezza, è anche merito suo.

Il libro non esisterebbe senza le illustrazioni: Mellini le volle eseguite «con metodo archeologico (le varie sedute per giustapposizione), montate senza alcuna casualità, cioè attraverso una selezione e una sequenza, tali che possano fornire un ulteriore contributo di lettura critica».

Si prestò all’impresa nel 1971 un maestro di fotografia quale Aurelio Amendola. Le immagini dei Rodella, nella presente riedizione, possono beneficiare di sculture restaurate rispetto all’epoca di Mellini e più agevolmente accessibili: vedi le inquadrature strepitose del Compianto oggi a Villa Carlotti di Caprino, nel 1971 relegato in malomodo nel camposanto del paese.

Certe volte i disegni sono «più chiari dei giri di parole», scrive Mellini, e bene ha fatto l’editore a ristampare la ricostruzione grafica di Francesco Arduini per l’assetto originario della Crocifissione che fu a San Fermo, ora smembrata tra Cellore d’Illasi e Castelvecchio. Non era così, ricomposta per poco in una memorabile mostra a San Pietro in Monastero nel 2012, ma il metodo della griglia geometrica di triangoli e cerchi in cui Mellini immaginò di inserire le sculture ha fatto scuola. Alberto Zucchetta lo ha applicato a meraviglia per il Giudizio di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova.

Arca di Guglielmo di Castelbarco, Rigino di Enrico, sagrato di Sant'Anastasi, Verona

Arca di Guglielmo di Castelbarco, Rigino di Enrico, sagrato di Sant’Anastasi, Verona

Se non ci si poteva arrivare con un drone o con una scala, meritava di essere ripubblicata dall’edizione 1971 anche la fotografia con il volto sorridente di Guglielmo di Castelbarco, il feudatario di Cangrande e finanziatore di Sant’Anastasia, che sorride guardando la basilica dal suo sarcofago nell’arca a fianco della chiesa.

«Il più bel monumento funebre al mondo», giudizio di John Ruskin che la dipinse dall’albergo Due Torri in meravigliosi acquarelli. Peccato che la foto d’insieme inquadri dentro l’arco sublime, nel cielo dietro Castelbarco, il campanile del Duomo, brutta sopraelevazione anni Trenta. «Visto che gli americani bombardavano Verona, una bomba potevano sganciarla sul campanile del Duomo e un’altra su Castel San Pietro», Carlo Scarpa dixit. Ma questo fa parte della «tradizione visuale» cara a Mellini, di quell’«archivio mnemonico» degli ostinati a sognarsela, Verona.

Giuseppe Anti

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