Il Fvg può avvantaggiarsi dal rientro “in casa” di produzioni che la globalizzazione aveva portato a delocalizzare nei Paesi emergenti? Possiamo cioè diventare destinazione dei processi di reshoring o friend-shoring? Federico Rampini, direttore scientifico di Open Dialogues for Future, ha lanciato questa opportunità e questa sfida. l punti di domanda sono necessari e sono diversi, perché vanno fatte riflessioni e valutazioni sulle condizioni che siamo disposti a sostenere per realizzare questa operazione: siamo disposti ad assumerci i maggiori costi? I nostri giovani vorranno lavorare ancora nella produzione di beni che avevamo demandato all’estero? E siamo disposti, soprattutto, a portare a casa i costi ambientali di molte produzioni che abbiamo “scaricato” lontano da noi, sui altri Paesi? Rampini ne ha parlato oggi pomeriggio (giovedì 2 marzo) nel panel dedicato allo “stato di salute” della globalizzazione, temi di cui il giornalista, con la moderatrice Silvia Boccardi, ha dibattuto con Carlo Altomonte (Professore Associato di Economics, Università Bocconi) e Carmine Porello (Responsabile Delegazione di New York, Banca d’Italia).
Porello ha ripercorso le tappe della globalizzazione, impetuosa crescita internazionale in prevalente attitudine e apertura al libero scambio. «La globalizzazione – ha spiegato – ha sollevato dalla povertà centinaia migliaia e migliaia di persone di Paesi in via di sviluppo, e si è accompagnata a un processo moderazione dei prezzi e di rarefazione dei conflitti, dagli anni ’80, per un trentennio, fino alla grande crisi finanziaria del 2008. Crisi che ha cominciato a contrastare questa apertura al libero scambio». Si è dunque cominciato a parlare di rallentamento della globalizzazione e sono emerse restrizioni agli scambi di beni, servizi, capitali e persone. «Negli ultimi anni, specie dopo la crisi Covid-19 e poi la guerra in Ucraina, le imprese nelle loro comunicazioni al mercato hanno cominciato a parlare di reshoring e friendsoring. Se questo fenomeno prende ulteriormente piede, sui concetti di redditività, profitto, benessere, prosperità, anche se sono accadute non senza distorsioni, si andranno a ritagliare un ruolo concetti come sicurezza, affidabilità delle forniture, ridondanza delle stesse. Questo può avere un impatto significativo sulla dinamica dei prezzi». La globalizzazione, dunque, se pure ha avuto delle distorsioni, per il delegato Banca d’Italia, è stata un volano di crescita e benessere straordinario «e a mio avviso sarebbe opportuno discutere di come migliorarla – ha evidenziato – piuttosto che privarci di uno strumento così potente». Attenzione dunque a dare per morta la globalizzazione, «anche perché – ha concluso – con una frammentazione e un isolamento delle economie, il Fondo Monetario Internzionale, pur come indicazione di massima, ha stimato che i costi potrebbero raggiungere il 7% del prodotto globale, praticamente la somma del prodotto di Germania e Giappone».
Dove sta guardando l’Europa e dove dovrebbe guardare, ha chiesto a Rampini la Boccardi. Perché non al Friuli Venezia Giulia, ha risposto il giornalista. «Nel momento in cui la globalizzazione, almeno così come l’avevamo conosciuta negli ultimi 30, entra in crisi, le alternative sono tante – ha detto – e perciò anche noi dobbiamo essere competitivi sul mercato come possibile destinazione di queste ri-localizzazioni».
Rampini ha evidenziato ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti, specie a seguito dell’Inflation Reduction Act e il Chips Act, da un lato per fare in modo, in pratica, che l’economia a zero emissioni non sia completo appannaggio della Cina e dall’altro per riportare l’industria di semiconduttori su suolo americano. «Ciò si sta verificando e di fatto si stanno ricostruendo in Usa fabbriche di semiconduttori in molti Stati. Ma tutto questo ci deve far riflettere sulle conseguenze». E si è tornati alle domande. Innanzitutto, siamo disposti a pagare la differenza di prezzo e l’aumento dei costi che produrre “in casa” comporta? Dobbiamo essere consapevoli peraltro che 30 anni di globalizzazione non si spazzano via in poco tempo, 30 anni in cui la Cina è riuscita anche ad affermarsi per la sua affidabilità sui prodotti, le infrastrutture e il controllo di qualità. Diversificare su altri Paesi emergenti, come India, Vietnam, Messico, non è un processo automatico. L’India, per esempio, non ha la classe operaia della Cina, né le infrastrutture. Si candida a essere alternativa alla Cina, ma ci vuole tempo. Il Fvg si può dunque candidare? Sì, ma deve farsi le domande fondamentali. Oltre a quello dei costi, per Rampini c’è da chiederci se i giovani, oggi e in futuro, «vorranno ancora produrre cose? Avere una carriera nel manifatturiero? O preferiscono andare a lavorare da Google?». Poi il tema fondamentale: «vogliamo recuperare produzioni purché non siano sporche. Vogliamo solo lavori puliti, vogliamo girare in Tesla ignorando che cosa serve per produrla, vogliamo ignorare quanto viene sporcato il pianeta per produrre un’auto elettrica: non ci interessa purché sia lontano da noi. Questo è un problema grosso: se vogliamo riportare a casa dobbiamo chiarirci le idee su quello che vogliamo e non vogliamo prendere in carico».
Un punto di vista diagonale è arrivato da Altomonte, che ha parlato di reshuffling più che di reshoring. «ֿLa Cina – ha detto – con la crisi finanziaria non ha smesso con la globalizzazione, ma ha investito proporzionalmente di più per investimenti interni. Questo potrebbe un po’ falsare la nostra percezione che la globalizzazione mondiale stia davvero rallentando». Ha poi parlato di intensità dei flussi di commercio, che possono variare molto velocemente, variazioni che possono permetterci di acquisire nuove quote di mercato. «I dati ci dicono che l’Europa, dalla crisi finanziaria in poi, ha cominciato ad accrescere il valore aggiunto all’interno e a diminuire l’investimento sul resto del mondo. Si sta dunque radicando molto di più l’interno e sta esportando meno valore aggiunto all’esterno. Ciò significa opportunità che si aprono all’interno del mercato europeo».
La prima giornata ha sviluppato ulteriormente questi concetti con l’ultimo panel, che si è concentrato sulle possibilità di andare verso un business a zero emissioni, tra costi, ambientali, sociali, culturali, ma anche necessità e opportunità per la transizione dell’economia del futuro. Si sono approfonditi la revisione dei principi chiave del capitalismo per renderlo più compatibile con esigenze ambientali e sociali nuove, la lotta a fenomeni come il “green washing” e il ruolo della finanza Esg in questo ambito; e la Cop, ossia i meccanismi di compensazione per i danni causati dai cambiamenti climatici, con una nuova frattura tra Occidente e Sud del mondo. Sono intervenuti Silvia Merler (Direttrice ESG e Policy Research, Algebris Investments), Ana Nacvalovaite (Research Fellow presso il Kellogg College, Università di Oxford) e Lorenzo Fioramonti (Direttore, Institute for Sustainability, Università del Surrey; già Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca).