Nel racconto di papà: «quando fioriva, scendevi dal treno e già sentivi il profumo del tiglio». Il grande albero di piazza Indipendenza a Verona, piazza Navona per i memori della toponomastica ante 1866.
Era nei giardini delle Poste, e ai millennials bisogna spiegare: le Poste centrali erano l’attuale condominio di appartamenti lussuosi e sfitti in Zetatièlle, sulla piazza-parcheggio oggi adibita a pestaggi nel deserto notturno dell’inner-city decay. Ok?
Il tiglio. Darno Maffini, quando tornò in piazza delle Poste dopo 50 anni, guardò i giardini e poi si voltò: «E il tiglio?» Gli aveva fatto ombra il 9 settembre 1943, quando lui e i primi partigiani fecero le barricate contro i tedeschi. L’hanno fatto morire, Darno. È stato nei primi anni Settanta, mi pare. Io ci giocavo sotto. La mamma diceva che hanno fatto uno scavo per portare dei cavi alle Poste, così gli hanno tagliato le radici ed è morto. Pensare che l’Italia era insorta, nel primo Novecento, quando il nuovo edificio delle Poste volevano costruirlo proprio al posto dei giardini. «Guai ad abbattere il grande tiglio di Verona!».
In antiche scorribande d’archivio ho visto articoli sul tema apparsi in vari giornali del Regno. Me ne ricordo uno sul Resto del Carlino, ma anche sui quotidiani romani. Quando trovo le fotocopie sarò più preciso. Alla fine le Poste (l’attuale condominio vuoto in attesa di emiri e oligarchi) furono costruite. Ma a essere abbattuti non furono il tiglio, né il platano, ne le gimko bilobe che almeno ci sono rimaste dell’antico orto botanico.
Per far posto al nuovo palazzo fu demolito invece un intero isolato di epoca scaligera, nonostante le proteste del soprintendente ai monumenti Giuseppe Gerola, che chiedeva di salvare almeno «la bella torre con basamento in pietra e cortine in cotto all’angolo di sud-ovest».
Niente da fare: la giunta comunale mandò avanti fascisticamente il progetto dell’architetto Ettore Fagiuoli. Al soprintendente “impressionato per l’ecatombe di tutto quanto quell’isola di fabbricato” non restò che chiedere pietà all’architetto medesimo: «È proprio necessario far tabula rasa di tutto?»
Tabula rasa fu. Almeno i giardini si salvarono. Però il medio evo non perdona. Sul volgere del nuovo millennio, fu presentato al Comune un progetto per costruire un parcheggio sotto piazza Viviani e sotto ai giardini, con accesso da piazzetta Pescheria. La morte per scavi del tiglio non aveva insegnato niente: sarebbero morti anche i superstiti alberi dei giardini.
Furono iniziati gli scavi-saggio in piazza Viviani, ed emersero le cantine degli edifici inopinatamente abbattuti nel 1926-1930. Stavolta la soprintendenza si impuntò e con le cantine fu riseppellito anche il progetto di parcheggio. La vendetta degli Scaligeri dopo il piccone fascista.
Non per niente questo è il luogo simbolo per la Verona che non si sottomette: il monumento a Garibaldi, inaugurato con il primo discorso del socialista Mario Todeschini, i busti a Cesare Battisti, Giacomo Matteotti e a Felice Cavallotti, bardo della democrazia, la lapide a Darno Maffini e ai primi partigiani… Contro l’idea dissennata del parcheggio scrissi decine di articoli sul giornale L’Arena, arruolando la memoria del povero tiglio contro un emulo di Fagiuoli.
Aveva dichiarato il progettista, per amor di parcella, che «le radici degli alberi non corrono rischi, non sono profonde oltre 20 centimetri». Quando il parcheggio fu finalmente fermato, il capocronista che mi aveva pubblicato tutti gli articoli venne a congratularsi: «Bravo. Pensa che sono socio dell’impresa, avevo già prenotato un posto auto». Non mi aveva detto niente, né mai censurato. Quel galantuomo di giornalista si chiama Francesco Chiavegato.
Le foto dei palazzi scaligeri demoliti sono note, le pubblicò Jean Pierre Jouvet in una delle 111 pagine nell’inchiesta Verona nell’epoca fascista (L’Arena, 19 novembre 1983). Ma il tiglio dalla mia infanzia non l’avevo più rivisto, neanche in fotografia. Ora le immagini affiorano, alla mostra in corso fino ad aprile alla Biblioteca Civica, per i 150 anni dalla nascita di Berto Barbarani.
C’è una foto novecentesca, anni Sessanta o Cinquanta, con un bambino accanto al tronco che potrebbe essere un mio vecchio compagno di giochi. Ci sono poi cartoline più antiche, degli anni in cui Barbarani scriveva lì accanto, nella redazione del Gazzettino in Pescheria.
Arnoldo Mondadori, nell’edizione di Tutte le poesie per cui scrisse una prefazione, allegò la ristampa di un biglietto autografo di Barbarani, inviato con un fattorino da quella redazione alla sua casa al ponte Nuovo: «Mandami due fette di polenta col pocio, che pel vino ci penso io».
Ringraziamo la fototeca della Biblioteca Civica per le fotografie e gli autori Giovanni Piccirilli e Monica Ghidoni per l’articolo di Berto Barbarani sul tiglio (che pubblichiamo qui sotto, ndr), da loro ritrovato nelle annate del Gazzettino e pubblicato nel catalogo della mostra, Barbarani 150.
Giuseppe Anti
Il Gazzettino, 22 luglio 1911
Le consolazioni di Verona proletaria
(B.B.) – Il tiglio grande di piazza Indipendenza, davanti alla nostra redazione (Pescheria, 3), sempre robusto, vegeto ed ospitale è l’albero termometro del centro cittadino.
In primavera, il primo canto è il suo, con quel caratteristico «tibidoi de passerine» così come lo chiamava un simpatico e poco noto poeta, il Bombardi, in una sua poesia per nozze. Un tibidoi di saluto e di offerta quasi. È il passero che dice in un latino quasi classico, «do a te la primavera».
Tranquillati i passeri nella loro prima foga, a poco a poco fiorisce il tiglio e dalle mille e mille gemme il fiore nella prima caldura estiva diffonde in larga misura il profumo caratteristico, che impregna le stanze e la testa degli inquilini e dei passanti di un languido piacere che deve essere senza dubbio sano e non morboso dal momento che si sa come coi fiori del tiglio si fanno dei decotti degni di fugare qualunque infreddatura.
Ma da qualche giorno ci accorgiamo che il tiglio, ombreggiante la nostra redazione, ospita una certa quantità di cicale, rumorose ed estranee alle abitudini del giardino botanico. Forse il tiglio se le è chiamate a posta per le sue sieste estive, come concilianti il sonno.
Infatti con c’è festa estiva in campagna (e a noi pare di essere in campagna) che non abbia per orchestra comune le cicale.
Saranno molte, saranno poche ma sono cicale. Quando si pensa che anche noi maestri di cronaca e di piazza, con tre donne e una gelateria (il pignatto sarebbe fuor di posto) componiamo un mercato.
Duque, quando il tiglio alberga le cicale, in città, è segno che il caldo deve essere grande.
I cittadini ne sono tanto compresi, che sudano – e questo tramite diremo così di umana rugiada, tra la temperatura interna del corpo e quella esterna della temperatura estiva, fa sì che tanti lavoratori perché costretti a lavorar troppo nella loro terra o nella loro officina non possono andare al mare o in montagna.
Per avere di questi privilegi bisogna essere o rachitici o ricchi. Quindi bisogna accontentarsi di quello che offre la città.
Che cosa offre Verona quando i suoi cittadini non possono andare alle marine o in montagna?
Come montagna non esiste che un’altura sola, la Fontana del Ferro vicino a Castel San Pietro. Come marina all’Adige i bagni popolari di Campagnola, come marina all’acquedotto i bagni cittadini di Campofiore.
Ma dopo i bagni ci vuole un po’ di reazione, un po’ di buon umore, la cheta stufa del riposo, quei larghi e comodi giardini dell’Arena dove le anime veronesi si affiatano con le anime romane, però con gli istinti un po’ modificati nella sinuosità materiale e crudele dello spettacolo.
Giuseppe Anti è nato a Verona il 28 agosto 1955. Giornalista, si è occupato di editoria per ragazzi e storia contemporanea; ha curato fino al giugno 2015 gli inserti “Volti veronesi” e le pagine culturali del giornale L’Arena. giuseppe.anti@libero.it