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Blog | Via D'Amelio, Bologna e gli sfruttati di Lecce: quanti anni ci vogliono per ottenere giustizia? – Il Fatto Quotidiano

Il bisogno di giustizia in questo Paese dovrà accontentarsi delle targhe commemorative?

Ci sono voluti 12 anni per una sentenza di primo grado, che condanna in maniera severa (pene da 10 a 18 anni) chi avrebbe organizzato una vera e propria associazione per delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù di centinaia di operai sfruttati nel peggiore dei modi e nella più ipocrita delle green economy. La Corte di Assise di Lecce ha accertato violenze “medioevali”, animate dalla più odiosa “supremazia padronale” nei confronti di esseri umani mortificati e costretti a lavorare anche 22 ore consecutive, ma tutto questo resisterà ai meccanismi della improcedibilità e della prescrizione?

Il processo “giusto” è anche un processo che non dura in eterno, vero, ma noi in Italia siamo stati campioni di fraintendimento, alimentando l’idea che per non far durare in eterno un processo invece di moltiplicare le risorse per fare giustizia in tempi più brevi (salvaguardando legittimamente l’istituto della prescrizione), fosse meglio sopprimere i processi ed estinguere i reati dopo un tot di anni, come fosse cibo avariato da non mangiare più. Producendo in tal modo, tra le conseguenze nefaste, anche un sostanziale svuotamento di due fondamentali principi costituzionali: l’uguaglianza di tutti difronte alla Legge e l’obbligatorietà dell’azione penale.

Dopo 43 anni dalla strage di Bologna possiamo leggere in atti giudiziari che le responsabilità di Licio Gelli appaiono in maniera eclatante, ma purtroppo il venerabile (e venerato fino alla fine) è morto. Trent’anni dopo le stragi del ’92 e del ’93 possiamo leggere in atti giudiziari che c’è stato un clamoroso depistaggio di Stato per impedire la ricerca della verità, ma che non è più possibile perseguirne i responsabili. E via seguitando ad elencare brandelli di verità strappati con fatica all’oblio da tenaci investigatori, giornalisti, familiari e magistrati.

Ed è folle che in democrazia ci si abitui all’idea che la ricerca di verità attraverso la legge sia sempre e soltanto una “lotta” estenuante, il cui esito (quasi sempre negativo) dipenda dagli sforzi stra-ordinari delle vittime (se vive) e dei loro congiunti: è il filo che lega l’ultimo post di Salvatore Borsellino alle parole dei genitori di Giulio Regeni (appesi alla prossima udienza fissata il 31 di Maggio). Ma l’elenco è interminabile.

Che la legge faccia giustizia e che sia uguale per tutti dovrebbero essere punti caratterizzanti l’impegno politico del campo di chi si oppone a questa destra, al pari della giustizia climatica, della giustizia sociale, del rispetto delle differenze esistenziali e culturali. Lo sono? Una risposta la avremo anche dalle scelte che sta facendo la segretaria del Pd Elly Schlein per la composizione della nuova segreteria nazionale.

Intanto qualche giorno fa a Torino è stata inaugurata la prima scuola in Italia dedicata alla memoria del giudice Bruno Caccia, assassinato dalla mafia, nella per ora accertata sotto specie della ‘ndrangheta, quando era Procuratore capo a Torino: unico giudice ammazzato nel nord Italia.

E’ stata una cerimonia commovente, autentica, che ha mobilitato una intera comunità scolastica, i familiari di Bruno Caccia, l’associazione Libera. E’ stata una cerimonia carica di riconoscenza verso chi, senza badare al proprio torna conto, ha cercato in ogni modo di coniugare legalità e giustizia, facendo vivere nella prassi quei principi costituzionali della obbligatorietà dell’azione penale e dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, perché consapevole che sono questi principio a marcare la distanza tra il dispotismo del più forte (la “Supremazia padronale”!) e il rispetto della dignità di ciascuno, ovvero l’essenza stessa della democrazia.

Ma le “targhe” come quella affissa nella scuola di Torino non bastano, non devono bastare: sono un doveroso monito, un utile “cartello stradale” per segnalare la direzione di marcia obbligata. Alle “targhe” deve corrispondere la politica.

La politica è davvero il “regno del possibile” dove ognuno di noi è chiamato a scegliere da che parte stare e come utilizzare la propria, immeritata, libertà: se come bottino di guerra o come strumento di liberazione. A cominciare dalle “narrazioni” (quanto va di moda questo termine!) a cui si decide di prestare fiducia, perché di “narrazioni” sono fatte le battaglie. Così, per esempio, bisogna decidere se al titolo Nel 1992: fu un colpo di Stato abbinare la foto del cratere di Via D’Amelio o, come hanno fatto Renzi e Sansonetti, quella di Mani pulite.

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